Quella che segue è la trascrizione dell’intervento di Benedetto Gravagnuolo (1949-2013), ordinario di Storia dell’Architettura e a lungo preside della Facoltà di architettura della “Federico II”, che è purtroppo venuto a mancare il 1 luglio scorso, lasciando un vuoto nella scuola di architettura napoletana e, più in generale, nella vita intellettuale della città, che sarà difficile colmare. Come si evince proprio dal suo incipit, Gravagnuolo si riprometteva di ampliare e approfondire le tematiche presentate in occasione di quell’incontro in un saggio da inserire negli Atti del convegno. L’aggravarsi della malattia non gli ha consentito di portare a compimento il lavoro, e si è pertanto scelto di presentare comunque una trascrizione del suo intervento. Si tratta, peraltro, dell’ultima sua partecipazione a un convegno e, al di là dei contenuti del suo intervento, il testo che segue vale a un tempo come un omaggio e un commosso ricordo.
Gentili colleghi,
proverò a ridurre in estrema sintesi il mio intervento, sebbene il tema dell’importanza delle bonifiche idrauliche ai fini della tutela e della valorizzazione del paesaggio, affrontato da una prospettiva storica, sia quanto mai vasto. Rinvio pertanto agli atti di questo incontro i necessari approfondimenti e limiterò il mio discorso ai passaggi logici essenziali, scusandomi per la schematicità.
Mentre parlo scorrono sullo schermo alle mie spalle immagini di stretta attualità, con qualche flash-back sulla storia del nostro territorio. Questo non deve sorprenderci: come amava ripetere il grande filosofo napoletano Benedetto Croce, la Storia è sempre contemporanea. Persino quando affrontiamo problemi di un passato remoto non possiamo fare a meno di farlo partendo sempre dagli interrogativi dell’oggi, dalle questioni che abbiamo di fronte. E quindi la Storia, intesa come riflessione critica sul passato, può rivelarsi preziosa anche per proiettare questa memoria nel futuro. Per questo motivo nella parte conclusiva del mio intervento cercherò di riallacciarmi a quanto accennato prima di me da Alfonso De Nardo sulla necessità di un restauro delle essenze arboree e, più in generale, del paesaggio, affermando in questo modo la necessità di fare un passo indietro per farne due in avanti.
Una prima considerazione che, lungi dall’apparire scontata va invece rimarcata, attiene al fatto che la consapevolezza della necessità di una pianificazione idrogeologica – intesa come progettazione e realizzazione di sistemi integrati di controllo, canalizzazione e drenaggio delle acque – si è palesata nelle comunità che hanno abitato il nostro territorio fin dai tempi più antichi. Potremmo dire che furono tuttavia i Romani a giungere, in quest’ambito, a risultati straordinari, in un tempo nel quale la nostra terra, non senza ragione, era denominata Campania Felix, la terra cantata da Virgilio. Essi conoscevano bene il fascino ma anche la potenza della Natura e delle sue forze incontrollabili – si pensi solo al Lucrezio Caro del De Rerum Natura – ma sapevano tuttavia neutralizzarne gli effetti negativi e i problemi da essi derivanti grazie alle risorse dell’ingegno umano. Tutta la piana della Terra di Lavoro, per esempio, esibisce ancora tracce visibili dell’antica centuratio impressa dai Romani sul suolo e che faceva da trama agli appezzamenti coltivati, alla rete interpoderale e, più in generale, all’intera struttura territoriale, orientando quindi anche le opere connesse alle canalizzazioni delle acque funzionali all’irrigazioni dei campi. Essa costituisce, peraltro, un grande patrimonio che gli archeologi hanno oggi ricostruito con estrema precisione. Questo tessuto di opere sarà purtroppo distrutto in età medioevale, anche se con il senno di poi saremmo forse disposti – concedendoci un sorriso – a “perdonare” i Longobardi per non essere intervenuti a bonificare paludi e acquitrini, per avere essi, in compenso, portato in Campania le bufale regalandoci così la mozzarella. Battute a parte, dopo la devastazione barbarica delle grandi opere di drenaggio delle acque della Campania Felix realizzate dai romani, ha inizio in età moderna una ripresa delle grandi opere di ingegneria idraulica che può essere datata, in particolare, proprio all’inizio del viceregno spagnolo. Un’età che è stata spesso giudicata come un periodo di oscurantismo e che invece, alla luce di quello che accade ai nostri giorni, dobbiamo sotto molti aspetti rivalutare. La linea del progresso, infatti, non segue sempre la curva oraria delle lancette del tempo e anzi, proprio sul piano della tutela del territorio, il nostro tempo sembra essere invece regredito, nonostante la disponibilità di una scienza e di conoscenze disciplinari assai più elevate rispetto agli antichi, e mezzi tecnici straordinariamente più potenti. Eppure di fronte a ciò che in concreto constatiamo oggi attorno a noi, non possiamo non rilevare realisticamente e con amarezza un netto peggioramento rispetto alle epoche passate.
Citerò solo alcune date emblematiche che, in questo lungo arco temporale plurisecolare che ha preceduto la barbarie del nostro tempo, hanno segnato gli interventi più significativi.
1539. È l’anno in cui Don Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga (1484 – 1553), viceré spagnolo a Napoli per conto di Carlo V d’Asburgo, dà l’avvio a quella grande opera di ingegneria idraulica che va sotto il nome dei “Regi Lagni” che, in estrema sintesi, si configura come una serie di interventi che interessavano un territorio attraversato per circa 50 km dal fiume Clanio che dalle vallate del Nolano giunge fino a Licola.
1610. Il Vicerè Fernando Ruiz de Castro Andrade y Portugal, conte di Lemos (1548-1601), incarica Giulio Cesare Fontana, grande architetto ingegnere figlio di Domenico Fontana – un gigante del tempo, l’architetto di Sisto V e il progettista del Palazzo Vicereale di Napoli – di progettare e realizzare un grande sistema di arginature delle acque che, insieme alla piantumazione di alberi, avrebbero contenuto i fenomeni di smottamento del terreno.
Grande civiltà.
1734. Dopo il breve periodo di dominazione austriaca, Napoli passa ai Borbone e con Carlo III la città torna capitale. Si apre così un’epoca che è sempre stata tratteggiata a fosche tinte rispetto all’enfasi della storiografia risorgimentale. Ma è stato proprio nell’età di Carlo III di Borbone che abbiamo assistito alla realizzazione di capolavori assoluti nel campo dell’ingegneria idraulica. Su tutti quello memorabile del grande acquedotto della valle di Maddaloni, il cosiddetto Acquedotto Carolino che preleva le acque dalle sorgenti del Fizzo alle falde del monte Taburno a Bucciano e le conduce fino a Caserta. Si tratta di un’opera di dimensioni notevoli, che ha pochi paragoni sia per la sua estensione territoriale che per la sua qualità architettonica, sia, ancora, per la rete di attrezzature come i mulini e altre opere connesse all’impianto, per il cui approfondimento si renderebbe necessario un convegno specifico, come è stato già fatto in passato e forse dovremmo ritornare a fare.
Questa attenzione nel Settecento per il controllo e il ridisegno di un territorio di per sé di gran pregio anche dal punto di vista estetico e paesaggistico, ci viene perfettamente restituita ogni volta che vediamo i paesaggi campani dipinti da Hackert, che ci permettono di intuire come ci fosse al tempo anche una precisa volontà – se volete in qualche modo anche “propagandistica” – di trasferire il mito del Sud alle terre del Nord, quel mito che già Goethe nel suo Viaggio in Italia aveva esaltato. Era una terra meravigliosa. Ma non c’è dubbio che quei dipinti ci mostrano, ahimé, anche un paesaggio perduto. Se pensiamo, per fare un solo esempio, a Giugliano come era un tempo e come è, verrebbe da dire: “ma siamo dei criminali!”. Giugliano, così bella nei dipinti di Hackert, ed oggi così devastata da ziqqurat di plastica e pile di rifiuti, che stanno lì e nessuno sa più come togliere. Siamo noi i barbari, purtroppo.
L’Ottocento, come è noto, è stato ancora nel segno dei Borboni: sempre loro, i “famigerati” Borboni. Ferdinando II, il famoso “re Bomba”, ha saputo però realizzare delle grandi opere di bonifica nei dintorni di Napoli – come avvenne sia nell’area orientale che in quella occidentale a Bagnoli dove molto più tardi sorse poi l’Ilva – ma anche nella piana del Sele, e in altre zone ancora. In età post-unitaria questa cultura e questa attenzione al territorio non si ferma perché è proprio in quegli anni che a Sarno viene realizzato uno degli episodi più importanti da un punto di vista storico di mettere in opera la natura, affrontando con successo il pericolo delle acque. Purtroppo ho fatto parte, con Leonardo Cascini e Fabio Rossi, del gruppo di studio che dopo la catastrofe alluvionale del maggio 1998 è stato incaricato di analizzare le ragioni di quel disastro. Constatammo nel corso delle nostre indagini che in alcuni Comuni i piani regolatori prevedevano l’edificazione in aree in cui gli antichi non avrebbero mai costruito. Sono stati ritrovati, ad esempio, alcuni documenti riguardanti la costruzione della chiesa di Episcopio dai quali si evince quanto gli abitanti del luogo, conoscendo quei fenomeni, abbiano ponderato con attenzione la scelta del sito più “sicuro” dove edificare. Al contrario, noi abbiamo autorizzato invece a costruire senza problemi lungo gli argini del fiume, sottovalutando nel contempo quella che è invece una forte potenzialità di queste acque, perché durante la seconda metà dell’Ottocento le grandi filande che hanno resa famosa Sarno utilizzavano proprio questa risorsa. Tutto il Comune di Sarno ha, infatti, al di sotto delle sedi stradali, un sistema di canalizzazioni direi avveniristico, se raffrontato a quello che abbiamo a disposizione noi oggi.
E ancora, al di là del giudizio critico sulla politica del Ventennio fascista, non possiamo fare a meno di riconoscere l’importanza di opere realizzate in un periodo nel quale, a parte la grande bonifica delle paludi pontine e la consequenziale costruzione delle cosiddette città nuove come Latina e Sabaudia, anche in Campania fu fatta un’opera di bonifica sistematica con la costruzione soprattutto di case rurali.
Quando ha inizio invece la nuova età dei barbari? A mio avviso nella seconda metà del ‘900, con i vandali in casa, per usare un’espressione di Antonio Cederna, il quale non ha certo tutti i torti a usare queste parole. Nonostante le denunce di intellettuali e della parte migliore della cultura italiana, questo fenomeno di ignoranza della gravità della devastazione del territorio non si è fermato ed è proseguito fino a raggiungere il culmine proprio ai nostri giorni, nella Gomorra di Saviano.
Proprio domani sarà pubblicato sul magazine “Sette” del “Corriere della Sera” un reportage di Gian Antonio Stella che denuncia ancora una volta il dramma di un territorio avvelenato e apre proprio con la giusta constatazione che è più violento il crimine che hanno commesso i clan casalesi nel conficcare nel ventre della terra madre i rifiuti tossici del Nord, dell’assassinio di un uomo, perché nel primo caso si uccide la propria terra, portando alla morte molte più persone, come dimostrano i dati dell’incremento dei tumori – soprattutto al fegato e allo stomaco. Quello che è stato fatto a questa terra è qualcosa di veramente esecrabile.
Siamo così giunti all’attualità. Il ministro Clini ha detto che, in fondo, per riparare i danni inferti al territorio campano in modo preventivo bisognerebbe investire circa 40 miliardi di euro. E’ stato anche detto che per ogni euro investito oggi in prevenzione si risparmiano sette euro necessari per opere da realizzare dopo la catastrofe. E tuttavia non basta avere le risorse – anche perché, per inciso, in questo momento i 40 miliardi sono solo sulla carta, molto virtuali, e forse impossibili da reperire effettivamente. Noi dobbiamo non solo imparare a spendere bene, ma soprattutto a capire che le civiltà antiche con mezzi molto poveri – una zappa e un aratro – riuscivano a manutenere il territorio assai meglio di quanto facciamo noi. E possiamo, forse, anche accettare questa condizione di povertà imposta come un impulso a esercitare la massima razionalità possibile nelle nostre scelte. Una razionalità che impone il buon governo del territorio a partire innanzitutto dalla difesa del suolo. Anche qui De Nardo ha anticipato la questione che attiene alla persistenza di una continua edificazione su suoli agricoli. Non è solo un grave danno estetico al paesaggio, e non è solo una perdita di qualità: è anche un danno idrogeologico diretto perché la cementificazione, con la sua coltre impermeabile, interviene indirettamente in modo negativo nei fenomeni idrogeologici costituendo, con i mutamenti climatici, una delle cause principali dei disastri. Questi fenomeni fortunatamente quest’anno non hanno colpito la Campania, ma nel 2010 il torrente Dragone ha per esempio distrutto Atrani.
E quindi: che fare? C’è un libro di Antonio Di Gennaro e Agostino Di Lorenzo pubblicato dalla CLEAN e significativamente intitolato “Tutela del territorio rurale in Campania” che affronta con serietà questo problema. Sul versante istituzionale, tuttavia, devo dire che è abbastanza deludente dovere constatare che non è ancora andato in vigore l’ormai famoso Piano Provinciale di Coordinamento Territoriale (PTCP), nella cui redazione alcuni di noi sono stati coinvolti come consulenti a titolo gratuito, e per il quale criticamente avevamo affermato la necessità di fissare un solo principio: “no al consumo del suolo”. Se un certo Comune ritiene di avere davvero bisogno di case, che costruisca nel costruito. Si faccia come in Francia: re-management. C’è tanta di quella edilizia spazzatura da demolire e far ricostruire, anche con volumetrie più alte, e quindi che non si occupi più suolo. Lo si restituisca all’agricoltura.
Per non chiudere, tuttavia, in negativo il mio intervento voglio citare un’ultima data che in qualche modo aveva aperto invece il cuore alla speranza. È l’8 dicembre 2009 – non è passato dunque molto tempo – e proprio qui alla Mostra d’Oltremare l’allora assessore Gianfranco Nappi presentava un progetto che si chiamava Terra Felix. Si trattava di un programma di riqualificazione dell’intero territorio campano, con grande attenzione soprattutto all’area attraversata dai Regi Lagni. Furono invitati in quell’occasione rappresentanti delle tre Università più rappresentative della regione. Furono invitati tutti gli Enti, non solo le Province, e tutti i sindaci. Ci sono stati vari convegni. Fu stanziata una cifra di 45 milioni, se non ricordo male, di fondi europei che dovevano essere messi a disposizione di un grande progetto di riqualificazione dei Regi Lagni (e per il quale fu costituita quella che venne definita S.T.U., Società di trasformazione urbana), e che venne affidato all’architetto tedesco Andreas Kipar (architetto peraltro non sospetto di schieramento ideologico e che è stato consulente anche della Moratti per l’Expo 2015), che ha saputo ripristinare la vallata della Ruhr in Germania devastata dall’industrializzazione, trasformandola in dieci anni nell’Emscher Park, diventato in poco tempo uno dei parchi più belli della Germania e dell’intera Europa.
Credo che sia proprio a partire da esperienze di questo tipo – nelle quali l’ingegneria idraulica, la pianificazione urbanistica e la progettazione architettonica possono e devono trovare un felice momento di sintesi per un’azione condivisa, integrata e incisiva – che possiamo far sì che la difesa e la riqualificazione del territorio ci restituisca un ambiente finalmente più sano, più sicuro e più bello, proponendosi quindi, oltre che come una straordinaria occasione di sviluppo economico serio, responsabile e sostenibile, come l’irrinunciabile azione di difesa della nostra stessa vita.