FABIO ROSSI, CARMINE DE LUCA
Dipartimento di Ingegneria Civile, Università degli Studi di Salerno
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Introduzione: l’incontro-dibattito dell’Accademia dei Lincei
Il 23 marzo dell’anno scorso, presso l’Accademia dei Lincei, si è tenuto un incontro-dibattito dal titolo “Cosa non funziona nella difesa dal rischio idro-geologico nel nostro paese? Analisi e rimedi” che ha visto la partecipazione dei massimi esperti del nostro Paese. Il documento conclusivo dell’incontro (marzo 2012) mette in evidenza alcune problematiche emerse nel corso dei lavori e di fatto costituisce una sintesi efficace delle criticità sul tema della sicurezza idrogeologica a scala nazionale. Essendo proprio questo, il tema ispiratore del convegno “La Sicurezza Idrogeologica e Ambientale nella Pianura Campana” sembra opportuno premettere i punti salienti del documento conclusivo dell’incontro dello scorso marzo. È ben noto che la valutazione del danno atteso E(Dn) è comunemente svolta come prodotto della probabilità di rischio (H) per l’esposizione al rischio (E) per la vulnerabilità (V): E(Dn)=H E V (Dn ed E sono espressi nella stessa unità di misura, in termini monetari, H e V sono numeri puri, compresi tra 0 e 1). Il documento succitato ricorda che la mitigazione del rischio idrogeologico può essere perseguita attraverso un’oculata miscela di interventi strutturali e non strutturali. I primi sono finalizzati a proteggere sia l’incolumità dei cittadini sia il territorio, riducendo il danno atteso attraverso la realizzazione di opere di difesa. I secondi, invece, mirano a ridurre il rischio residuo e sono rivolti soprattutto alla difesa dell’incolumità dei cittadini attraverso la regolamentazione delle aree a rischio e i sistemi di previsione degli eventi estremi, che prevedono anche l’emissione di avvisi di allerta, l’assistenza e l’efficace comunicazione alla collettività. Nel rispondere al quesito “Si può convivere con le alluvioni?” la sintesi dell’Accademia dei Lincei evidenzia che occorre considerare due aspetti importanti: i) la difficoltà di effettuare previsioni affidabili di eventi che interessano scale spaziali e temporali ridotte, tipiche dei bacini di piccola estensione; ii) l’apparente crescita esponenziale delle perdite economiche connesse all’incremento della frequenza degli eventi estremi, in particolar modo su scala spazio-temporale tipiche dei piccoli bacini, comporta che il costo (per i cittadini) della non implementazione di interventi strutturali supera in grande misura i benefici (per lo Stato). Ne deriva quindi che è necessario un piano efficiente di messa in sicurezza finalizzato alla riduzione del danno atteso nel rispetto del rapporto costi-benefici degli interventi. Spesso si tenta di giustificare la mancata elaborazione ed attuazione di un tale piano invocando la carenza delle risorse finanziarie. Occorre tuttavia interrogarsi su quali siano le possibili cause dell’inefficienza dell’allocazione delle risorse finanziarie disponibili. A tal proposito l’Accademia dei Lincei cita:
- un quadro normativo confuso;
- una farraginosa struttura organizzativa;
- una permanente conflittualità tra Enti;
- una parcellizzazione delle responsabilità;
- una preoccupante perdita di cultura scientifica e tecnica;
- un’erronea contrapposizione ideologica fra ambientalismo di maniera e ingegneria;
e sintetizza i precedenti punti evidenziando “l’urgente necessità di una drastica semplificazione del quadro normativo e di una riconsiderazione profonda del ruolo e del sostegno da destinare ai Servizi Tecnici dello Stato e delle Regioni.” Il documento passa in rassegna anche i principali ostacoli all’implementazione delle misure non strutturali, indicandoli essenzialmente in:
- servizi smantellati e servizi mai nati (Servizio Idrografico, Servizio geologico d’Italia, Servizio meteorologico);
- altri nodi irrisolti (livelli di efficacia ed efficienza fortemente differenziati, finanziamenti non garantiti, accesso ai dati idrologici con modalità molto variabili, talvolta con difficoltà, mancanza del ruolo scientifico centrale);
suggerendo la necessità per il Paese “di mettere mano ad un’opera di sistematica ristrutturazione del Sistema dei Servizi (o Agenzie), nei tre grandi settori Meteorologico, Idrografico e Geologico, valorizzando i servizi regionali nell’ambito di una struttura di coordinamento nazionale scientificamente e tecnicamente forte”. L’Accademia, infine, concentra la sua attenzione su: la gestione del territorio, sottolineando il ruolo del consumo del suolo e delle tecniche costruttive atte a ridurre la vulnerabilità degli insediamenti, da inserire in un contesto pianificatorio che contempli il delicato equilibrio tra lo sviluppo del territorio e la difesa dell’ambiente; la gestione del rischio, evidenziando la necessità di “rafforzare, con l’ausilio di specialisti fra cui anche esperti nel campo della comunicazione del rischio, l’approccio scientifico adottato nella progettazione e controllo della catena decisionale. Con l’auspicio che il Dipartimento di Protezione Civile sostenga quest’attività e contribuisca alla sua implementazione nell’ambito di progetti pilota da estendere, in prospettiva, all’intero territorio nazionale.”; il ruolo della comunità scientifica, che deve potenziare e coordinare la formazione universitaria in alcuni settori, oltre che affiancare un rinnovato sistema di Agenzie Nazionali, trasferendo loro le conoscenze, nonché provvedendo ad un costante aggiornamento. Le diverse fasi della bonifica in pianura campana La pianura campana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento è stata oggetto di imponenti opere di bonifica con lo scopo di eliminare i fenomeni del paludismo e di rendere i suoli coltivabili e urbanizzabili. E’ la prima fase della bonifica, intesa nel senso ristretto di bonifica idraulica di pianura (C. Viparelli, 1975), che si pose anche l’obiettivo di:
- raccogliere e convogliare, al di fuori del limite del comprensorio di bonifica, le acque che cadono direttamente su di esse (acque basse o zenitali);
- evitare che le acque che affluiscono dalle pendici montane e collinari (acque alte o esterne) esondassero e spagliassero nei terreni latistanti.
Attraverso gli alvei montani e pedemontani affluivano in pianura anche ingenti quantitativi di materiale solido. La parte più grossolana del materiale solido si depositava subito agli sbocchi in pianura formandovi più o meno ampi coni di deiezione. La maggior parte dell’acqua che affluiva da monte, nei periodi di magra e di morbida, si perdeva infiltrandosi, attraverso i coni di deiezione. Di conseguenza, risultando ridotte le portate efficaci di modellamento, i tratti d’alveo in pianura risultavano ancora più scarsi. Prese quindi avvio una seconda fase di bonifica, che C.Viparelli definisce della colonizzazione, con l’acquisizione all’agricoltura di sempre nuove superfici di terreno e vide l’insediamento in pianura di fasce della popolazione sempre più numerose. Non bastò più impedire che le acque basse ristagnassero sui terreni, ma si dovettero anche garantire franchi di coltivazione adeguati. Per ottenere una difesa più sicura dalle acque alte, si rialzavano e si consolidavano le arginature (difesa passiva). Già allora, al tempo stesso che si realizzavano, si sapeva che le opere avrebbero mantenuto inalterate nel tempo la loro efficienza, soltanto se si fosse provveduto alla loro continua ed assidua manutenzione. La grande trasformazione del suolo in Campania La trasformazione dell’uso del suolo rappresenta il normale processo evolutivo del territorio per effetto di molteplici forzanti, tra cui la più determinante è senz’altro quella antropica. Le scelte e le conseguenti azioni dell’uomo, infatti, sono in grado di incidere significativamente sull’uso del suolo e cono esso sul comportamento dei processi fisici che governano la produzione delle piene. Nell’ultimo cinquantennio il territorio della Campania ha subito cambiamenti di vastissima portata che non hanno raffronto con nessun momento storico. Di Gennaro e Innamorato (2005) hanno effettuato un’analisi dei cambiamenti del territorio rurale della Campania nel periodo 1960-2000. Tale analisi mette in evidenzia come, nel periodo investigato, ci sia stata la tendenza all’aumento dei boschi e delle città a scapito delle aree agricole. Gli autori commentano i risultati, che vedono le aree urbane quasi quintuplicate e quelle arbustive e boschive incrementarsi del 40% a fronte di una crescita demografica inferiore al 20%, con un commento che deve far riflettere: ”La civiltà campana ha impiegato tre millenni per edificare i primi 20.000 ettari, quaranta appena per i successivi 80.000.” L’analisi svolta, inoltre, evidenzia come i tre quarti delle nuove aree urbane siano ubicate in pianura e intorno ai vulcani, vale a dire nelle aree più fertili ed in quelle più pericolose dei paesi. Le carte dell’uso agricolo del suolo della regione Campania relative agli anni 2001 e 2009 evidenziano una ulteriore crescita delle aree urbanizzate e delle superfici artificiali. Nella cartografia succitata tali aree comprendono: insediamenti residenziali, insediamenti produttivi, dei servizi pubblici e privati, delle reti e delle aree infrastrutturali, aree estrattive, cantieri, discariche e terreni artefatti ed abbandonati. Figura 1 – Uso del suolo della Regione Campania (Stralcio del Livello 1 di Corine Land Cover Italia 2006 Nel complesso nel periodo 1998-2009 le aree antropizzate conservano una crescita tendenziale, passando dai circa 93699 ettari del 1998 ai circa 101153 ettari del 2009. Il tasso di crescita annuo, tuttavia, è decisamente più basso, circa 677 ettari/anno nel periodo 1998-2009 a fronte dei circa 1880 ettari/anno del periodo 1960-1998. L’ISTAT (E. Giovannini, 2012) ha effettuato una stima provvisoria dell’incremento dell’estensione delle località abitate italiane, che rappresenta una stima per difetto delle aree urbanizzate, nel periodo 2001-2011, riscontrando un incremento percentuale dell’8.8 %. I dati in tabella 1 mostrano che dal 1998 al 2009 le aree urbanizzate e le superfici artificiali della Campania sono cresciute dell’8% circa, dato che sembra riflettere la media nazionale; ciò che stupisce, tuttavia, è che in soli cinquant’anni la superficie urbanizzata e artificiale della regione Campania sia passata dall’1.64% del territorio regionale al 7.44%. 0 In sintesi lo spazio rurale campano evolve per effetto di forze contrastanti: l’espansione urbana non regolata e l’abbandono culturale, cosicché al consumo territoriale si accompagna il degrado ambientale e paesaggistico. I dati sopra sintetizzati devono far riflettere sugli effetti che essi hanno sulle portate di piena. È ben noto, infatti, che in un determinato bacino l’incremento delle aree impermeabili a discapito di quelle permeabili, produce un aumento significativo delle portate di piena, sia per effetto della variazione del tempo di ritardo del bacino, sia per effetto dell’incremento del coefficiente di afflusso.
Figura 2 – Evoluzione negli anni della superficie urbanizzata della Regione Campania (A) e della % della superficie urbanizzata rispetto alla superficie complessiva della regione (B) La variazione dell’uso del suolo può indurre una non stazionarietà nella media delle portate al colmo di piena. Analisi in tal senso sono state svolte ad esempio da Villarini e Smith (2010) e sarebbe auspicabile l’approfondimento della tematica anche con riferimento ai bacini campani, se non addirittura a quelli italiani. Oggi, tuttavia, si deve registrare l’assenza di informazioni idrometriche aggiornate, puntuali ed affidabili, per cui è di fatto complicato, se non impossibile, sviluppare analisi credibili sul tema. A tal fine, si potrebbe cominciare a studiare le relazioni tra le variazioni dell’uso del suolo e l’andamento delle portate al colmo di piena negli anni con riferimento ad un bacino campione opportunamente scelto, strumentato e monitorato. Da qualche tempo sembra tuttavia che stia nascendo una rivoluzionaria attenzione a queste problematiche ed all’uso del territorio. Recentemente, ad esempio, il Ministro dell’Agricoltura ha proposto un disegno di legge che fissa criteri e obiettivi per il consumo del suolo agricolo. Il lungo e accidentato iter approvativo è ancora nella fase iniziale, ma ciò che conta è che finalmente si cominci a riconoscere il suolo come risorsa strategica per la sicurezza agro-alimentare del Paese e per la vitalità degli invidiabili paesaggi rurali italiani.Verso una sempre maggiore attenzione al territorio sembra andare anche la determinazione dell’aggravio gestionale derivante dall’immissione nelle opere di bonifica di acque meteoriche provenienti dalle superfici impermeabilizzate e di farlo pagare a chi di tali immissioni beneficia. La sicurezza idrogeologica nella pianura campana Gli eventi alluvionali che purtroppo frequentemente funestano la regione Campania sono anche la manifestazione dell’inadeguatezza del sistema di drenaggio delle acque superficiale. Tale inadeguatezza è dovuta in parte alla carenza dell’azione manutentoria, ed in parte alla profonda trasformazione del territorio avvenuta negli anni della rinascita economica. L’urbanizzazione del territorio, infatti, ha determinato da un lato l’incremento del valore esposto a rischio, che comporta la necessità di considerare nelle verifiche delle opere tempi di ritorno più elevati rispetto a quelli comunemente adottati per la difesa dei suoli agricoli, e dall’altro uno squilibrio crescente tra le portare effettivamente defluenti e la capacità di trasporto delle reti di bonifica. Queste ultime, infatti, sono state progettate e realizzate oltre 100 anni orsono, quindi in un contesto nel quale nemmeno le più lungimiranti menti avrebbero potuto prevedere gli attuali livelli di urbanizzazione. Le opere di bonifica, quindi, da una parte necessitano di una manutenzione continua per garantirne l’efficienza nel tempo, dall’altra hanno bisogno di essere ammodernate con interventi volti a recuperare, o quanto meno mitigare, lo squilibrio esistente tra capacità di trasporto e portate di piena. Allo scopo possono essere realizzate vasche di laminazione delle portate di piena, opportunamente posizionate nella fascia pedemontana, che riducono i colmi ed aumentano i tempi di ritardo per effetto dei volumi di invaso. La difesa del suolo da passiva diventa attiva perché sono ridotte le portate di piena a cui devono essere proporzionati gli alvei. Per tutelare il sistema di drenaggio di pianura delle correnti detritiche è necessario inoltre provvedere alla sistemazione dei torrenti montani mediante opportune opere di difesa. I sistemi di briglie chiuse di consolidamento, posizionate il più vicino possibile alle zone di innesco permettono la riduzione delle pendenze dei torrenti montani a pendenze di progetto del 5-10%, tali da attenuare sensibilmente i fenomeni di fluidificazione e amplificazione nella fase di propagazione delle correnti detritiche. Un simile intervento applicato a tutti i torrenti montani aventi pendenze maggiori del 15-20% permetterebbe di mitigare il rischio da correnti detritiche. In sintesi occorre prendere atto che la difesa del suolo passa anche attraverso efficaci ed efficienti opere di bonifica e finanziare interventi ad hoc per il loro miglioramento.
- buona parte dei canali di bonifica sono interessati da scarichi di reflui civili, agricoli e industriali, conseguenza talvolta della disattenzione delle Amministrazioni preposte alla tutela del territorio, con gravi ripercussioni sulla manutenzione ordinaria dei canali;
- una parte non trascurabile dei canali di bonifica è stata trasformata in collettori fognari, inficiando l’originaria funzione di drenaggio della falda e di smaltimento delle acque meteoriche, o addirittura intubata, ostacolando il deflusso idrico;
- spesso le canalizzazioni che costituiscono le reti di bonifica sono interessate da rifiuti di qualsiasi genere e gli stessi sedimenti derivanti dal trasporto solido risultano contaminati dalle immissioni inquinanti, sicché ne deriva un notevole aggravio per lo smaltimento dei materiali rimossi in fase di manutenzione;
- la stessa risorsa idrica risulta inquinata, tanta da comprometterne in alcuni casi la stessa fruibilità ad uso irriguo;
le opere finalizzate alla difesa del territorio vanno inquadrate in un contesto più ampio di recupero della qualità ambientale e del paesaggio, in maniera da non incontrare ostacoli quando si confrontano con le esigenze burocratiche e paesaggistiche. Conclusioni La difesa dal rischio idrogeologico necessita di un piano di interventi che comprenda sia misure strutturali che non strutturali. Ciò tuttavia non basta, occorre infatti procedere a: i) una riorganizzazione del sistema delle competenze e delle responsabilità; ii) riconoscere le opere di bonifica esistenti come elemento cardine per la mitigazione del rischio di alluvione nelle aree di pianura; iii) adeguare le opere esistenti alle mutate condizioni del territorio. Oltre a ciò si deve prendere atto che nessuna stima di portata o di precipitazione può essere ritenuta attendibile in mancanza di dati idrometrici e pluviometrici aggiornati, puntuali, affidabili e di facile consultazione. Occorre poi considerare che il territorio della Campania ha subito un profondo processo di trasformazione dell’uso del suolo, per cui si ritiene di fondamentale importanza l’approfondimento degli effetti che tali trasformazioni hanno indotto sul regime delle portate di piena. Ai fini di tali approfondimenti si ritiene indispensabile poter disporre di una bacino campione opportunamente scelto, strumentato e monitorato. In questo modo, da un lato si potrebbero ricavare utili informazioni sull’eventuale non stazionarietà delle piene, migliorando i modelli previsionali, e dall’altra si potrebbero sperimentare nuovi modelli di preannuncio.